Ma dai?! Non dimostri per niente la tua età!”
“Non si può essere stanchi a 25 anni.”
“Servono maggiore energia e creatività. Inseriamo talenti più giovani”.
“Nonostante la sua età, ha ancora voglia di mettersi in gioco.”
Possiamo dire che l’ageismo sia di poche parole? Sulla base di questi pochi esempi, che è probabile aver sentito (o pronunciato) almeno una volta, direi di no.
Il primo ad utilizzare il termine “ageism” è stato Robert N. Butler nel 1969, nel contesto di un’intervista rilasciata al Washington Post. Il fenomeno esisteva certamente anche prima che Butler individuasse un nome per identificarlo, ma è molto difficile conoscere (o, meglio, riconoscere) qualcosa che non sappiamo neanche nominare. E, quindi, ben venga il termine ageism, che ci aiuta a identificare un fenomeno diffuso, sottile, pervasivo, ma non per questo meno potente. Quello che ci porta a discriminare una persona (o ad associarle stereotipi), semplicemente sulla base della sua età. Qualunque essa sia.
Conosciamo poco questo termine, probabilmente ci rendiamo poco conto di come questa discriminazione possa colpire noi o altre persone, eppure, rispetto ad altre forme di discriminazione e stereotipizzazione, l’ageismo è l’unica che non fa distinzioni, che non guarda in faccia a nessuna e nessuno.
Non si cura di questioni genere, colore della pelle, religione, classe sociale, orientamento, abilità.
L’ageismo colpisce tutte le persone indistintamente, anche quelle che sono meno abituate a conoscere la discriminazione, come l’uomo, bianco, etero affettivo e senza forme di disabilità, ad esempio.
L’ageismo colpisce tutte e tutti.
E c’è di più, l’ageismo è una discriminazione contro noi stesse/i, oggi e/o domani.
Perché l’ageismo riguarda le persone in fascia d’età cosiddetta “alta”, così come quelle in fascia d’età “bassa”.
È il linguaggio che ci accompagna nella crescita, ci infonde e trasmette una propensione verso atteggiamenti che possono arrivare ad essere anche discriminatori. Il tutto, in modo inconsapevole.
“Ci arrivassi io così pimpante alla tua età!”. Un complimento, come tanti. Ma cosa dice in realtà questa frase ? Più o meno questo: “Ammazza, sei in là con gli anni, dovresti avere lo stato vitale di un’ameba, ma fortunatamente non li dimostri e sei ancora vitale o, meglio, giovanile”. Come pensiamo si senta chi la riceve? Oppure: “Cosa vuoi saperne tu, che sei un ragazzo?!”. Questo non è un complimento. E’ una discriminazione bella e buona nei confronti di chi, semplicemente perché più giovane, non sembra aver diritto ad avere un punto di vista e di poterlo esprimere. Sono frasi che possono capitare, no?
Pensiamo anche a certa iconografia che ci è stata trasmessa fin dalla prima infanzia. Qual è la prima immagine che associamo alla parola “nonna”? Forse quella di Cappuccetto rosso? Una donna anziana, malaticcia (anche per motivi funzionali alla fiaba), indifesa, che passa il suo tempo a lavorare a maglia. Immaginiamo, invece, se più spesso ci venisse presentata una versione diversa, in cui la nonna è più simile ad Iris Apfel (ve la ricordate l’imprenditrice e interior designer statunitense, diventata nota grazie allo spot della Citroen DS3?). L’imprinting che riceveremmo fin dalla prima infanzia sul concetto di anzianità, sarebbe molto diverso.
La familiarizzazione con l’idea di invecchiamento come inevitabile viale del tramonto, in cui si hanno scarse difese, solo bisogni e non più granché da dare, avviene in molti contesti. Nel mondo del marketing e della pubblicità, le persone “grandi di età” (l’asticella può partire dai 45/50 anni) non sono molto rappresentate. A meno che non si tratti di prodotti che le coadiuvano durante il viale del tramonto: presidi medico-chirurgici, vitalizi, assicurazioni, etc. Tutti riferiti a bisogni e aspetti funzionali della loro fase di vita. Molto raramente s’incontra comunicazione a supporto dei sogni e desideri di queste persone.
Ad esempio, una app per incontri dedicata a persone che sono nel loro “secondo tempo”, che magari si sono separate, hanno perso un amore o non l’hanno ancora incontrato e vogliono finalmente realizzare questo
desiderio.
Proprio a causa di questo stato di cose, possiamo chiamare chi ha più di 50, 60, etc anni, “Persone Invisibili”, che come tali raccontano di sentirsi.
E le persone, invece, in età bassa come vengono colpite da episodi di ageismo?
Bastano frasi tipo “Vi presento il giovane collega”, “Sei troppo giovane”, “Sei così giovane”, “Sei un ragazzo”. Frasi che, mettendo l’accento sulla “giovane età”, rischiano di screditare colleghe/ghi. Perché queste parole possono far pensare che non riteniamo qualcuno all’altezza di una situazione o di un ruolo semplicemente in base al numero di anni che hanno. Mettendo in secondo piano competenze specifiche, risultati raggiunti e professionalità dimostrata sul campo.
C’è chi dice che dell’età bisogna andare fiere/i, ribadirla senza vergognarsi ad ogni occasione (Ashton Applewhite lancia infatti #agepride nel suo illuminante Ted talk). Ed è certamente condivisibile nell’intenzione liberatoria che tutto questo può avere.
Però mi chiedo se questo non rischia di avere un effetto controproducente: continuare a dare enfasi a quello che dovrebbe essere solo un numero, facendone una chiave di lettura rispetto a quello che abbiamo raggiunto o fatto nella nostra vita, che siamo diventate/i, che dovremmo aver fatto e non abbiamo invece raggiunto, etc.
E se dessimo a questo numero tutta un’altra importanza, anzi, molta meno importanza?
E se facessimo dell’età uno di quei numeri che ci accompagnano, tipo il numero delle scarpe che portiamo? Chi ha interesse a conoscere quanto portiamo di piede? E che valore ha questo numero nel definire se stiamo vivendo più o meno bene una fase della vita? Nessuna correlazione.
E allora, iniziamo a relazionarci all’età come fosse il numero di scarpe che portiamo e vediamo cosa succede.
Magari potrebbe capitarci di pronunciare o sentire frasi del genere: “Pensa, avrei detto che portavi un 40 e invece hai il 39. Te lo porti bene, però!”
Oppure: “Che ne puoi sapere tu che porti il 42…”
Forse all’inizio suonerebbero un pò strane, ma ci aiuterebbero a liberarci dalle tante aspettative, condizionamenti e valutazioni che facciamo su noi stesse/i e sulle altre persone in base all’età. E magari tante cose sarebbero più semplici.
ESISTE UN’ETA’ IN CUI SI SMETTE DI ESSERE DONNE?
Certamente non a livello biologico.
A livello emotivo, invece, esiste un momento nella vita delle donne in cui tutto cambia, in cui s’innesta una nuova percezione di sé. E’ quella dell’ invisibilità. Le donne si sentono invisibili agli occhi di eventuali partner, presenti o possibili, agli occhi del contesto sociale, culturale ed economico.
Messe nell’angolo dell’invisibilità dai tanti pregiudizi e stereotipi che vedono quel tempo della vita con una sola lente: quella dell’inevitabile “viale del tramonto”, in cui si vive solo di bisogni e non di sogni, desideri, voglia di mettersi in gioco e cambiare.
Il documentario “Ancora donne. Quando l’amore non ha età”, scritto e diretto dalle registe svizzere Stéphanie Chuat e Véronique Reymond, è un ritratto a cinque voci che ci racconta una visione diversa di questo tempo della vita e di come cinque donne decidono di riempirlo, superando le proprie paure e rincorrendo passioni e sogni.
Le protagoniste insegnano che non è l’età a definire cosa sia giusto o possibile, ma come decidiamo di viverla. “Ancora donne” è un film autentico, intimo e gioioso che sovverte gli stereotipi legati all’ageismo e ai suoi effetti, in particolare quando si fonde con questioni di genere.
Selezionato dal festival Visions du Réel (2018) e dal Festival di Locarno nella sezione Panorama Suisse, “Ancora Donne” ha ricevuto la nomination come miglior documentario al Swiss Film Award nel 2019.
Lo aspettiamo molto presto anche in Italia